Una recensione di Battlestar Galactica

di Adriano V. Autino

Avendo visto tutte e 4 le serie, devo riconoscere che avevano ragione  coloro che mi hanno criticato circa un mese fa, quando avevo esternato le mie impressioni prevalentemente critiche, dopo aver visto solo alcuni episodi della prima serie. Nel mio attuale stato, se non di entusiasmo, almeno di sostanziale gradimento per questo prodotto televisivo, spero di trattenermi sempre ad almeno un passo dallo spoiler, per non rovinare la sorpresa a quanti ancora non l’avessero visto.

In effetti “Battlestar Galactica”, pur avendo qualche tratto in comune con Star Trek, dal punto di vista della pura narrazione avventurosa, ha poco in comune con la più famosa saga fantascientifica. Forse si può accostare maggiormente all’ultima serie di Star Trek, “Picard”, un altro prodotto senz’altro ascrivibile alla fantascienza moderna, almeno dal punto di vista della sceneggiatura e della caratterizzazione dei personaggi e delle storie che si intrecciano nella trama.

Sono rimasto molto colpito dall’alto livello della recitazione, dalla profonda caratterizzazione psicologica dei personaggi, e anche dalla profondità dei temi che questa serie propone. A conti fatti, nonostante le incongruenze, gli intrecci non risolti, alcuni episodi di livello più basso, BG regge sicuramente il confronto con “The Expanse” di James Corey, e mi spiace che nessuno abbia ancora tentato di trarne un romanzo o una serie di romanzi.

Sono molte le citazioni di grande pregio che si possono riscontrare nella serie: valga per tutte il riferimento a Shining, con la bambina che procede nel corridoio con la moquette rossa.

Per quanto riguarda i personaggi quello che mi è piaciuto di più è l’avvocato Romo Lampkin, interpretato da Mark Sheppard, il cui eloquio ci regala passaggi di alta letteratura, proponendo riflessioni e temi niente affatto banali. Ma questo si può riscontrare anche in altri momenti e con altri personaggi. Mark Sheppard però ci offre anche un’interpretazione di grande livello, in un ruolo che sarebbe calzato a pennello a Jack Nicholson, al quale Sheppard sembra del resto ispirarsi, con garbo e misura.

Il personaggio che invece mi desta più simpatia e riscuote maggiormente il mio affetto è Kara Thrace, detta Scorpion (Starbuck nella prima versione del 1978 della serie), che in tutte le sue trasformazioni comunque manifesta un’umanità e una capacità empatica superiori. Superbamente interpretata da Katee Sackhoff, Scorpion è tenera e aggressiva, violenta e capace di grandi sentimenti, dei quali non è per niente avara, anche se si trova ad affrontare rimorsi e drammi interiori quando la sua capacità di amare più di una persona in modo passionale è causa di sofferenza. Ma anche questo fa parte della sua grande umanità.

Il tema della divinità è sicuramente, insieme a quello della pressoché equivalenza tra intelligenza naturale ed intelligenza artificiale, uno dei temi prevalenti nell’assetto filosofico della saga. Che siano il culto di un Dio unico, praticato dai Cyloni, o gli Dei ai quali ciò che resta dell’umanità rivolge invece le proprie preghiere, vi sono continui riferimenti alle grandi religioni della vecchia Terra: Cristianesimo, Ebraismo, mitologia greca.

Tutta la storia ci porta al concetto spirituale di una qualche entità superiore all’umanità nelle sue varie forme, perché alla fine anche le cosiddette macchine Cylon altro non sono che una trasformazione evolutiva  dell’umanità, che ciclicamente ricrea se stessa, interpretando in fasi successive e ricorrenti il ruolo del creato e del creatore. Ma proprio in questa ciclicità priva di speranza si annida il carattere distopico di quest’opera, con buona pace di Kardashev  e della sua scala evolutiva.

Siamo di fronte ad una civiltà che, pur essendosi espansa dello spazio, non ha saputo mettere a frutto i benefici derivanti dal poter usufruire di risorse e di energia enormemente superiori a quelle del pianeta su cui la stessa civiltà si è evoluta. Allo sviluppo espansivo ha preferito il nomadismo, quasi che il mettere radici su diversi corpi celesti rappresentasse una sorta di maledizione cosmica. La Terra ed il suo sistema solare, che l’umanità aveva scelto di abbandonare, anziché espandersi e consolidarsi in esso, rimane poco più di un riferimento mitologico, una leggenda che si perde nella  notte del tempo. Di più: la massima espressione della propria scienza, vale a dire l’intelligenza artificiale, divenuta in tutto simile se non identica all’intelligenza umana, si rivela non un fattore di crescita evolutiva bensì un boomerang, che si ritorce contro l’umanità stessa.

Quindi, in definitiva, ciò che si evince da questa saga è che si tratta ancora e sempre di fantascienza distopica. Un’ennesima narrazione in cui la scienza è vista come il vero e proprio carnefice della specie umana. E, quando l’umanità si ritroverà a un nuovo inizio, gli autori non troveranno di meglio che farle abbandonare tutta la conoscenza scientifica e tecnologica e ricominciare da un modello sociale rurale e primitivo (!).

Neppure Dio si salva, in questo tritacarne ideologico che livella qualsiasi aspirazione evolutiva. Il Dio che per tutta la storia viene evocato e raccontato, e che soprattutto negli ultimi capitoli si manifesta nelle persone dei propri “agenti” — o delle proprie “matite”, come avrebbe potuto dire Madre Teresa di Calcutta –, questo Dio potrebbe anche essere una super intelligenza artificiale, auto-evolutasi sino al punto di superare il limite dell’energia e della materia, e quindi potersi manifestare concretamente a proprio piacimento. Una volta appurato che l’osservatore influenza l’esperimento, l’osservatore-sperimentatore non potrà più trattenersi dall’agire direttamente nel flusso degli eventi, secondo la nota legge del “tanto ormai”, in un patetico tentativo di salvare l’ennesimo esperimento fallito.

La storia non ci autorizza mai, del resto, a pensare che un qualsiasi Dio non artificiale sia mai potuto esistere. In ogni caso questo Dio (artificiale o no) non avrebbe saputo fare meglio dei suoi predecessori, per così dire, naturali, né degli dei greci o delle successive iterazioni, perché si trova ancora una volta ingabbiato in un eterno riciclo di morte e rinascita, rivoluzione, distruzione, morte e rinascita, negando qualsiasi idea evolutiva. Kardashev è servito, tanto per cambiare.

Più che ad una diretta dal confronto tra intelligenze, umana e artificiale, ci viene raccontato il confronto tra la stupidità umana, quella artificiale e persino quella divina, che in definitiva non riesce a venire a capo dei propri esperimenti, e neppure a decidere se sia il caso di intervenire personalmente oppure no, né con quale intento (!), finendo comunque in ogni caso con l’incrementare l’entropia di tutto il processo.

Siamo di fronte all’eterno paradosso meta-comunicativo: possono intelligenze “normali”, come quelle di autori e sceneggiatori, immaginare il ragionamento di ipotetiche intelligenze superiori, siano esse divine o artificiali? Purtroppo gli stupidi – che magari non sono stati inizialmente favoriti dalla natura, ma in molti casi non si sono neanche mai impegnati per sviluppare la propria intelligenza, e quindi sono responsabili della propria perdurante condizione di stupidità – tendono a pensare che la furbizia, il sotterfugio e l’egoismo siano le uniche armi di sopravvivenza. Ciò li porta ad avere paura di tutti, e in particolare di chi è, o sembra, più intelligente. La paura è la madre di tutte le violenze, i soprusi, gli sfruttamenti, gli omicidi. Ecco perché è estremamente raro che si riesca ad immaginare un mondo in cui, grazie a processi evolutivi quali quelli teorizzati da Kardashev e da Maslov, tali comportamenti progressivamente vadano a dissolversi sullo sfondo…

C’è anche da chiedersi cosa ci induce a sentirci sempre consolati dalle visioni nihiliste, che ci riportano a considerarci “umani” proprio perché cattivi, egoisti e disonesti. Ed alla “sana” fatica del lavoro nei campi, senza neppure l’ausilio di attrezzi meccanici (sic!).

Io una spiegazione filosofica ce l’ho. Ciascuno di noi pensa di essere fondamentalmente onesto ed è convinto che, se messo nelle condizioni di poter vivere bene, pacificamente e liberamente, senza essere costretto ad uccidere né sfruttare il prossimo, sarebbe ben felice di accettare questa condizione, e di lavorare per raggiungere i massimi livelli della scala di Maslov: l’auto-realizzazione.

Di cosa sto parlando? Di progresso evolutivo, sociale e tecnologico. Come ci spiega Kardashev, ciò è possibile adottando una seria e coerente strategia espansionista, senza mai perdere la fiducia nel principio stesso dell’intelligenza.

Ma, constatando il permanere dei comportamenti retrogradi, ognuno si sente giustificato a rimanere nella propria grande o piccola arretratezza culturale. Ciascuno di noi, pur essendo intimamente convinto della propria moralità personale, è altrettanto convinto della totale immoralità dei propri simili, e pensa che comunque la natura umana sia fondamentalmente ed eternamente cattiva, aggressiva ed egoista, incline alla violenza e alla sopraffazione, anche quando una grande abbondanza di risorse ed energia rendesse tali istinti naturali non più necessari alla sopravvivenza (livello più basso della piramide di bisogni di Maslov).

Per andare oltre questo limite psicologico, e dare finalmente ragione sia a Kardashev che a Maslov, vi sono solo due soluzioni, che possono funzionare solo in modo combinato e sinergico. La prima: forzare l’espansione, battendo sul tempo sia i nemici giurati sia gli scettici ed i nichilisti. È la via scelta da Elon Musk e Jeff Bezos, cui forse un giorno erigeremo monumenti a imperitura (speriamo) memoria. La seconda, non meno importante, è l’educazione umanista, senza la quale anche gli sforzi più generosi potrebbero fallire, perché non adeguatamente supportati dall’opinione pubblica e dai governi.

L’educazione umanista farà aumentare la fiducia nella natura intimamente buona dell’intelligenza (sia umana sia artificiale). Bisogna quindi scommettere su questa equazione: più grande l’intelligenza maggiore la comprensione dell’assoluta non convenienza del male – inteso qui come estremo egoismo fratricida e sopraffattore.

Se l’intelligenza non fosse intrinsecamente buona, del resto, non ci saremmo neanche evoluti fin qui, partendo da uno stato animale. È solo la nostra crescita in un sistema chiuso, e diventato ormai stretto, che sta determinando una pericolosa stagnazione di taluni caratteri naturali come la propensione a uccidere e sopraffare per soddisfare i bisogni primari e non. In un contesto di abbondanza di risorse, conseguente all’apertura della frontiera alta, tali caratteri resterebbero appannaggio solo di pochi psicopatici, una categoria progressivamente in via di estinzione.

A quando una narrazione che lasci perlomeno intravvedere tali orizzonti?

[AA.05.07.2020]